La solitudine della scultura
Ludovico Pratesi

Di cosa parliamo quando parliamo di scultura nel 2013? Conclusa
la stagione dell’arte relazionale, che ha dominato gli anni novanta,
esaurita o quasi la ripresa del modernismo reimpaginato
in chiave multiculturale, la scultura internazionale delle ultime
generazioni pare aver abbandonato la strada dell’opera intesa
in chiave affermativa e muscolare, intesa come un esercizio di
potenza legato all’utilizzo di materiali nobili e pesanti, dal bronzo
al marmo, per privilegiare invece la pratica dell’assemblaggio,
in direzione però diversa da quella messa a fuoco dalla celebre
mostra The Art of Assemblage, aperta nel 1961 al MoMA, ma più
vicina per stilemi e modalità a Unmonumental, fortunata rassegna
curata da Massimiliano Gioni al New Museum di New York
nel 2007. Non più ready-made o frammenti di oggetti quotidiani
consunti, riuniti a comporre forme antropomorfe o ispirate dall’estetica
della macchina cara ai nostri futuristi, bensì accostamenti
di materiali eterogenei, che compongono paesaggi dai significati
del tutto soggettivi, legati a suggestioni poetiche, letterarie o antropologiche.
O semplicemente a un’idea di spiazzamento fisico,
un displacement che modifica la percezione dello spazio dello
spettatore, modificandone le condizioni strutturali per provocare
uno slittamento sensoriale in direzione simbolica, metaforica
o mentale, per provocare nello spettatore un’esperienza a tutto
tondo, basata sulla vocazione interpretativa dello spazio attraverso
la scultura. Non environment o installazione, ma una sorta
di architettura di senso, un dispositivo aperto che determina una
relazione attiva tra l’opera e lo spazio, che viene attivato dalla
presenza dell’opera stessa, non per contenerla ma per agirla.
Un’introduzione necessaria per contestualizzare il pensiero di
Giovanni Termini in occasione della sua personale proposta dalla
Fondazione Pescheria nello spazio dell’ex chiesa del Suffragio,
che l’artista ha trasformato in un malinconico e suggestivo paesaggio
incompiuto, vuoto e deserto, la cui apparente inutilità viene
sottolineata dal titolo voluto dall’artista e riassunto in un’unica
parola, tagliente e cattiva nella sua sottile e pungente ambiguità:
Armatura. Si tratta di una installazione di grandi dimensioni, che
ricorda volutamente l’architettura di un cantiere abbandonato,
malinconicamente vuoto di voci, gesti, tensioni ed energie che lo
hanno animato per giorni, nello sforzo comune di innalzare un
edificio, per dare vita a un nuovo spazio all’interno delle forme
perfette e armoniose della chiesa del Suffragio. Un dialogo tra
sacro e profano, compiuto e incompiuto, che costituisce il senso
primario dell’opera: l’invito a relazionarsi con un non-luogo, una
sorta di essenziale deposito di una volontà negata e resa impossibile,
che esiste soltanto nella dimensione di una memoria praticabile
ma inanimata, che Termini paragona all’impotenza che
caratterizza la società italiana contemporanea. Nessuna concessione
narrativa, nessun abbellimento estetico, ma la brutalità di
una struttura in fieri, che fa proprie modalità e materiali del reale,
secondo pratiche di rilettura del modernismo che appartengono
ad artisti internazionali come Pedro Cabrita Reis, Oscar Tuazon
o Tom Burr. Come loro, anche Termini lavora sulla relazione tra
l’opera e lo spazio che la accoglie, secondo un procedimento avviato
già nei primi anni Duemila, che innerva opere come Divaga
ma non troppo (2008), esposta alla Quadriennale, dove una
struttura di tubi innocenti sosteneva casse e altri elementi tridimensionali,
che corrisponde, secondo una corretta definizione di
Andrea Bruciati, “di ridefinire la scultura non più come un ordine
di volumi statici ma come assemblaggio di forme in espansione
e dei rapporti tra queste forme”. Rapporti che in altri lavori, come
Inclinata (2009) o Attraverso (2009), erano stati presentati
come tensioni tra forze compresse, mentre con Armatura (2013)
l’artista riprende la propria capacità di generare spazi essenziali
praticabili, che si appropriano delle associazioni simboliche e
tautologiche dei materiali per interpretare lo spazio in maniera
cruda, quasi crudele. Non opere ma luoghi temporanei, strutture
scarnificate per edifici abortiti, figli di un territorio malato che
Termini ha voluto metaforicamente presentare al pubblico, per
attivare una riflessione sullo stato di malessere del nostro paese.
E lo ha fatto in maniera forte senza però indulgere a quella
vis narrativa che indebolisce il linguaggio di tanti artisti italiani
delle ultime generazioni, con un lavoro rigoroso e puntuale, privo
di retorica e autocompiacimento. Un messaggio duro che viene
stemperato dalle altre due opere in mostra, le sculture Disarmata
da se stessa (2013) e Idea di coesione (2012), dove la presenza
di elementi come i piattelli e le cinghie da trasporto riportano
l’attenzione su azioni temporalmente definite in una dimensione
quotidiana, quasi giocosa, senza però rinunciare a un rigore
formale che appartiene di diritto ai felici sviluppi della ricerca di
Termini. Un tempo che, come puntualizza Alberto Zanchetta, è “il
vero contenitore delle forme” per Giovanni Termini, che riduce il
linguaggio della scultura a metafora di un quotidiano vissuto in
piena consapevolezza del proprio essere, senza tirarsi indietro di
fronte a scelte radicali come Disarmata.